La più bella lettera di Machiavelli
4 dicembre 2013
Esattamente 500 anni fa, il 10 dicembre 1513, a pochi chilometri da Firenze, a Sant’Andrea in Percussina, tra Impruneta e San Casciano, Niccolò Machiavelli scriveva una delle sue lettere più belle.
Machiavelli aveva perso il lavoro molti mesi prima. Era stato funzionario della Repubblica di Firenze per più di 10 anni. “Amo la mia patria più della mia anima”, diceva. Ma la repubblica ormai è caduta, non c’è più. Sono tornati i Medici, i signori, sono tornati i prìncipi. Machiavelli perde tutto, perde il lavoro, è allontanato bruscamente, assaggia anche la tortura della corda, perché c’è chi cerca di accusarlo di essere coinvolto in un complotto contro i Medici. Si ritira in quel suo podere vicino San Casciano, ma chiede aiuto a chi può farlo lavorare. Scrive al suo amico Francesco Vettori, che è diventato ambasciatore di Firenze presso il papa, ma Vettori tergiversa, prende tempo, lo stima molto e gli vuole bene, ma non riesce ad aiutarlo.
Niccolò sembra perdere le speranze. Proprio lui si scoraggia, quel Niccolò al quale dopo secoli di incrostazioni storiografiche, di letture del suo pensiero non sempre pertinenti, affibbiamo l’aggettivo negativo e demoniaco di “machiavellico”, un aggettivo che avrebbe rifiutato, per sé e per il suo pensiero. Niccolò sembra cominciare a perdere le speranze, in quella lettera di esattamente 500 anni fa. Io mi alzo e vado in campagna – scrive -, controllo che i miei taglialegna non litighino, ogni tanto mi capitano imbrogli e prepotenze su pagamenti e sulla legna. Quando lascia il bosco, alla fine della mattina, Niccolò si ferma a leggere qualcosa, qualcosa che lo faccia stare bene, ha sempre con sé qualcosa di Petrarca, o Dante, qualche poeta minore come Tibullo o Ovidio. Legge i loro amori – dice – e si ricorda dei suoi. Al pomeriggio vado all’osteria – dice con un linguaggio che qui solo parafraso – e con chi trovo gioco a carte, imbroglio per un quattrino e litighiamo e urliamo al punto che ci sentono fino a San Casciano. E passa il tempo e io “m’ingaglioffo”. “M’ingaglioffo”, che vuol dire che si avvilisce, si involgarisce, perde se stesso. Perché non può stare senza lavorare, senza lavorare ha paura di diventare sempre peggio. Prova vergogna e vorrebbe che anche la sorte si vergognasse di se stessa per tenerlo in quella situazione.
Ma alla sera, dice Machiavelli, mi tolgo gli abiti sporchi di fango, mi metto gli abiti di corte ed “entro nelle antique corti delli antichi huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”. Machiavelli in questa corte, che è anche e soprattutto una stanza interiore, parla con gli antichi, cioè legge Livio, Cicerone, Sallustio e a contatto con loro, con le loro risposte e domande, è a contatto con il se stesso più autentico, riattiva ciò che lo fa essere se stesso. E quando sono con loro “sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte”.
Il risultato di questi dialoghi è un libretto intitolato De principatibus, cioè il Principe. Lo dici lui, lì, in quella lettera, che per questo è anche molto famosa. E ci dice anche perché scrive quel libello: per lavorare, per far capire ai Medici che lui, disoccupato e avvilito per quanto possa essere, i suoi 15 anni di lavoro, di esperienze, di conoscenza dell’arte dello Stato, lui non se li è né dormiti, né giocati a dadi. Dice proprio così: “non gli ho né dormiti né giuocati”. (Chissà se anche a lui oggi darebbero del choosy, chi lo sa). E che gli diano da lavorare, anche solo da far girare un sasso, un’inezia, perché lui sarà capace e basterebbe anche solo leggere quel libretto che ha scritto, per capirlo. E lo capisca anche Francesco Vettori, a cui scrive la lettera, e se può lo aiuti.
La lettera di Machiavelli ha 5oo anni, ma sarà letta sempre, perché descrive un presente permanente, anche se come storico non dovrei esprimermi così. Ogni individuo, ogni generazione corre il rischio di ingaglioffirsi, di avvilirsi, di diventare volgare, di allontanarsi dal se stesso più autentico. Noi lo sappiamo bene. Ma Machiavelli con poche parole mostra bene dove sta il coraggio, cioè nel rimanere in contatto con quello di noi che fa di noi quello che siamo, con il nostro lavoro, la nostra attività, le ragioni delle nostre scelte originarie, dei nostri princìpi, la voglia di essere migliori in quanto noi stessi.
In fondo è un messaggio politico anche quello della lettera – un paio di brevi paginette accanto ai grandi lavori che ha scritto – ed è l’esortazione ad avere il coraggio di entrare in quella stanza con abiti di corte dove “non temiamo la povertà e non ci sbigottisce la morte”, perché siamo noi stessi, perché siamo noi insieme agli altri.
Qualcuno forse non si fidava di lui, perché aveva amato la repubblica ed era tornato il tempo dei principi, e forse per quello, pensa Niccolò, non lo fanno lavorare. Machiavelli chiama a testimonianza di se stesso tutto quello che è e che è stato: “E della fede mia non si doverebbe dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutar natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia”.
E poi chiude la lettera con un saluto, scritto in latino perché le buone maniere lo imponevano, ma forse anche per custodire e proteggere quell’augurio, che in fondo è il più bello: Sis felix, che tu sia felice. Esattamente cinquecento anni fa in questo nostro Paese.
Gianluca Briguglia è Senior Research Fellow in filosofia all'Università di Vienna (Storia del pensiero politico medievale e moderno). Ha fatto ricerca e ha insegnato all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco, a Torino e alla Statale di Milano. Scrive per il domenicale de Il Sole 24 Ore. Il suo ultimo libro si intitola "Marsilio da Padova", e parla di filosofia, politica, Italia del Trecento e di come il medioevo ha inventato la modernità. Il suo blog personale è I'm no Jack Kennedy. Twitter @GBriguglia
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